Bruxelles-Roma, 1 febbraio 2021
Oggi le autorità militari del Myanmar hanno annunciato la proclamazione dello stato di emergenza per un anno, con la sospensione e il trasferimento di tutti i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari “indipendenti” al comandante in capo, il generale Min Aung Hlaing. In una serie di incursioni avvenute di prima mattina, i militari hanno arrestato diversi membri di alto livello della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), ovvero il partito al potere, tra cui l’ex premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, così come molti attivisti per la democrazia e i diritti umani, leader studenteschi e rappresentanti di partiti e movimenti delle minoranze. Ciò è avvenuto lo stesso giorno in cui il nuovo parlamento doveva riunirsi per la prima volta dopo le elezioni generali di novembre, vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia guidata dal Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi con oltre l’80% dei voti tra le rivendicazioni di risultati fraudolenti portate avanti dai militari. Le azioni ricordano fin troppo i giorni di quasi 50 anni di governo sotto regimi militari oppressivi che molti cittadini birmani speravano di essersi lasciati alle spalle dopo il cosiddetto passaggio al governo democratico nel 2011.
Il colpo di stato ha scatenato un coro di condanne e richieste da parte della comunità internazionale di ristabilire lo stato di diritto e il rispetto delle aspirazioni democratiche del popolo birmano. Non c’è Pace Senza Giustizia condivide le preoccupazioni per l’incolumità e la sicurezza delle persone arrestate e prese in custodia, così come per il totale disprezzo dei risultati delle elezioni democratiche. Non c’è dubbio che sia necessario un ripristino del nuovo parlamento e il riconoscimento della responsabilità per le attuali azioni repressive. Speriamo che la riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di oggi sottolinei questo messaggio e intraprenda azioni concrete per raggiungere tali obiettivi.
Tuttavia, non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle radici e alle origini degli eventi di oggi, che sono anche il risultato di precedenti e continue oltraggiose violazioni avvenute finora nella totale impunità. Dal 2011, sembra chiaro che i militari hanno mantenuto una presa relativamente stretta sulle istituzioni del Myanmar, grazie a disposizioni costituzionali che garantiscono il controllo del parlamento e dei ministeri più potenti. È anche chiaro che la LND al potere con la leader Aung San Suu Kyi hanno deplorabilmente voltato le spalle al rispetto dei diritti umani da quando hanno ottenuto (o meglio condiviso) il potere, tradendo le promesse fatte al popolo birmano di revocare le leggi repressive e di rompere con le pratiche abusive del passato.
Non solo il governo della LND ha perso l’opportunità di introdurre e promulgare significative riforme democratiche che avrebbero protetto la libertà di parola e di riunione, ma ha anche ripetutamente violato i diritti civili e politici di base, censurando i messaggi del partito di opposizione, degli attivisti, dei giornalisti e dei critici e impedendo la parità di accesso ai media statali, in particolare durante l’ultima campagna elettorale.
Inoltre, la LND non è riuscita a portare di fronte alla giustizia le forze di sicurezza del paese per le atrocità commesse contro le minoranze etniche e i civili, in particolare contro i Rohingya, il che ha portato il Myanmar ad affrontare una causa di genocidio presentata dal Gambia di fronte alla Corte internazionale di giustizia (ICJ), mentre la Corte penale internazionale (ICC) sta indagando sui crimini contro l’umanità commessi contro i Rohingya in Myanmar, con ricadute anche in Bangladesh. Vedere quella che una volta era il punto di riferimento per la libertà e i diritti umani difendere o minimizzare gli abusi dell’esercito del Myanmar perpetrati contro i Rohingya all’udienza della Corte internazionale di giustizia lo scorso dicembre è stato estremamente deludente e scioccante. Si è rivelato un punto di rottura per la reputazione internazionale di Aung San Suu Kyi, portando – tra gli altri – il Parlamento europeo a escluderla dalla Comunità del Premio Sakharaov, un riconoscimento che aveva ricevuto nel 1990 per aver incarnato la libertà di pensiero e la lotta per la democrazia nel suo paese.
Non valorizzare e praticare la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani non dovrebbe essere un comportamento senza conseguenze, in particolare per coloro che sono stati eletti dal popolo per governare in suo nome. NPSG si augura che il popolo del Myanmar sia padrone del suo futuro politico e non la sua vittima. In questo momento difficile e impegnativo, chiediamo anche alla comunità internazionale di prendere tutte le misure e le azioni appropriate e necessarie per salvaguardare i diritti e il benessere di tutta la popolazione del Myanmar senza distinzione e garantire la responsabilità per i crimini e le violazioni passate e presenti perpetrate contro di loro.