Bruxelles / Roma, 17 luglio 2019
Ad un anno esatto dalle celebrazioni del ventesimo anniversario dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, cominciano ad emergere sempre di più interrogativi concreti sull’ “idoneità” della CPI, nel contesto peraltro di un’ostilità crescente contro la Corte, il suo lavoro e la sua finalità.
In occasione del ventesimo anniversario dello Statuto di Roma, la fondatrice di Non c’è Pace Senza Giustizia, Emma Bonino, ha chiesto a gran voce una nuova e rinnovata “dichiarazione di intenti”, sottolineando che “la Corte deve poter fare di piú. Deve rivedere le proprie performance passate, porsi alcune importanti domande e prendere delle decisioni forti in modo da poter lavorare in maniera maggiormente efficace ed efficiente. Facendo ciò, potrà certamente raggiungere un livello etico piú elevato, adattandosi alle necessità presenti e ponendosi in una posizione inattaccabile per svolgere al meglio i propri compiti”. Tale richiesta è stata accolta dai precedenti presidenti dell’Assemblea degli Stati Parte, il principe Zeid Raad al Hussein, Bruno Stagno Ugarte, Christian Wenaweser e Tiina Intelman in un articolo pubblicato dal Consiglio Atlantico sotto il titolo “La CPI ha bisogno di un aggiornamento”. Sottolineando il crescente divario tra i principi fondatori sanciti dallo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale e la prassi, i precedenti presidenti del ASP hanno richiesto una valutazione del funzionamento quotidiano della Corte tramite il lavoro di un piccolo gruppo internazionale di esperti. L’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea degli Stati Partecipanti della CPI sembra stare prestando attenzione alla richiesta: nel mese di giugno è stato notato “un crescente consenso circa la necessità di rivisitare la Corte” e sembra che si facciano progressi verso questo obiettivo.
È vero infatti che il track record della CPI continua a presentare lacune, specialmente negli ultimi due anni, nonostante alcuni importanti progressi. Tra questi ultimi, l’affermazione secondo cui l’altro “non c’è posto nel diritto internazionale – o almeno nei tribunali internazionali – per l’immunità dei Capi di Stato; essi possono essere ritenuti responsabili di crimini ai sensi del diritto internazionale”. La CPI ha affermato inoltre che “è possibile indagare e perseguire la violenza sessuale e di genere” con la recente condanna nel caso Ntaganda. Ha dimostrato che quando alcune parti del sistema falliscono, altre parti possono intervenire e ripristinare fiducia nei meccanismi penali internazionali, come ha fatto il Fondo fiduciario per le vittime dell’ICC dopo l’assoluzione dello scorso anno di Jean-Pierre Bemba. Sta contribuendo alla nostra comprensione di come il diritto penale internazionale possa essere utilizzato in modo creativo per assicurare giustizia per le vittime con la recente richiesta di apertura di un’inchiesta sul Bangladesh / Myanmar.
Dal lato negativo, tuttavia, si sono percepite fratture importanti per l’immagine della CPI già a partire dallo scorso anno, attraverso lotte interne alla Corte, discordie e assenza di armonia. Nei successivi dodici mesi, le cose non sono migliorate: una pletora di casi sono stati inoltrati dallo staff e da funzionari passati e attuali di fronte al Tribunale Amministrativo dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro, generando rimborsi da parte della CPI per la risoluzione di diversi casi, pur con altri casi pendenti. La decisione “no case to answer” nel caso Blé Goudé e Gbagbo è stata accolta con notevole sgomento, riaprendo molti interrogativi circa le capacità investigative dell’Ufficio del Procuratore. Per essere chiari, Non c’è Pace Senza Giustizia non crede che i proscioglimenti siano il segno di un fallimento di un’istituzione giudiziaria, ivi inclusi i reparti investigativi e persecutori. Tuttavia, il fatto che il Procuratore abbia mancato di assolvere all’onere della prova circa i carichi pendenti sui due imputati – che la difesa non ha neppure dovuto discutere il proprio caso o addurre elementi di prova – dimostra che qualcosa non va alla CPI.
Poi c’è stata la decisione di non voler aprire le indagini per quanto riguarda la situazione in Afghanistan, sebbene il Procuratore abbia dimostrato sufficienti basi per credere nell’esistenza di gravi crimini commessi, una decisione adesso facente oggetto di ricorso. Questa decisione è stata presa un paio di settimane dopo le minacce profferite dal segretario di Stato americano Mike Pompeo contro lo staff e i funzionari della CPI e, in generale, nei confronti di chiunque supportasse l’apertura di indagini avverso le truppe statunitensi in Afghanistan. Pur se formalmente l’attacco non era diretto specificatamente contro i giudici della CPI, il contenuto e la tempistica della decisione presa desta stupore sul fatto che i giudici della CPI potessero eventualmente cedere a pressioni politiche rinunciando al l’apertura delle indagini.
Per quanto possiamo essere d’accordo con alcune di queste critiche – denunciando palesi prepotenze come quella dimostrata dal Segretario di Stato Pompeo – Non c’è Pace Senza Giustizia continua a supportare il lavoro della Corte e ci impegnamo nuovamente perché la Corte possa crescere.
Perché? La risposta è semplice: un mondo che prevede un meccanismo sanzionatorio internazionale per chi si macchia di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio è meglio di un mondo senza. Lo strumento creato può aver bisogno di riparazioni, all’interno e all’esterno, ma rimane il fulcro del sistema dello Statuto di Roma, che comprende meccanismi di responsabilità giudiziale e non a tutti i livelli. La CPI continua a rappresentare la speranza che le vittime non saranno dimenticate, la loro sofferenza non rimarrà inascoltata e che un giorno giustizia sarà fatta. Per questo motivo, la Corte ha bisogno del nostro supporto per amplificare quanto fa di buono e aiutarla a fare meglio. La CPI nasce da un’idea di tutti noi e, come dei buoni genitori, dobbiamo lodarla quando fa un buon lavoro e correggerla quando si allontana dal suo percorso. Rimaniamo fedeli alle parole dello scorso anno della nostra fondatrice e rimaniamo convinti che “in nessun luogo ci deve essere un rifugio sicuro per i criminali di guerra; nessuno deve sentirsi in grado di commettere questi terribili crimini impunemente”. La CPI, pur con tutti i suoi difetti e mancanze, si erge come il bastione contro quel rifugio sicuro e per questo motivo, deve essere consolidata e rafforzata nella sua missione e per le sue finalità nei prossimi anni.
Per maggiori informazioni, contattare Alison Smith, Director Of International Criminal Justice Program (asmith@npwj.org) oppure Nicola Giovannini, Press & Public Affairs Coordinator (ngiovannini@npwj.org org).