La giustizia internazionale. Un’arma contro i dittatori

17 Dic, 2017 | Pubblicazioni

Caro direttore, nell editoriale «Giustizia che punisce solo i vinti» (Corriere, 14 dicembre 2017) Paolo Mieli ha criticato il bilancio del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Icty), a pochi giorni dalla cessazione delle sue attività, perché, a suo dire, ha solo indagato e perseguito i crimini commessi dalla parte perdente. La giustizia dei vincitori insomma, come successe con i processi di Norimberga e di Tokio dopo la seconda guerra mondiale. Questo è vero solo in parte: in realtà l’Icty ha indagato e, nella maggior parte dei casi, perseguito i responsabili di crimini di tutte le parti in conflitto. Certo, la percezione che alla barra siano andati soprattutto serbi o serbo-bosniaci e’ innegabile (anche se il suicidio del generale croato Slobodan Praljak mostra appunto il contrario), ma la ragione è che i tribunali internazionali guardano innanzitutto a coloro che hanno la maggiore responsabilità per i crimini più gravi, come nel caso dell’Icty. Dopotutto, il suo lavoro non era quello di riscrivere la storia, ma di rifletterla e di giudicare le responsabilità per le atrocità commesse, a partire da chi ha concepito e condotto l’ultima guerra «etnica» — si spera — della storia d’Europa. Ma anche se fosse vero che l’Icty ha perseguito principalmente i perdenti, suggerire che ciò non è «giusto», e conseguentemente che non si è amministrata giustizia, è trascurare il fatto che l’Icty non è e non dovrebbe essere l’unico attore chiamato a giudicare i crimini commessi nell’ex Jugoslavia. E’ ora accettato, come norma di diritto internazionale, che la responsabilità primaria di indagare e perseguire crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio sia in mano agli Stati. Questa norma è alla base dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale attraverso il principio di complementarità, in cui la Cpi interviene solo se le giurisdizioni nazionali non sono disposte o non sono in grado di indagare e perseguire penalmente i reati stessi. Ciò significa che la giustizia penale per crimini di guerra e contro l’umanità dipende non solo da un tribunale internazionale come l’Icty, ma anche dai tribunali nazionali. E’ questa la migliore «eredità» del Tribunale penale internazionale: «Il completamento del mandato del Tribunale non è la fine della giustizia per crimini di guerra, ma l’inizio del prossimo capitolo. L’ulteriore responsabilità per i reati ora dipende interamente dalle magistrature nazionali nell’ex Jugoslavia. Migliaia di casi rimangono da elaborare, in particolare molti casi complessi contro i sospetti di livello medio e alto in tutti i paesi”, ha affermato il procuratore del Tribunale Serge Brammertz. Ciò richiede anche l’esame di altre giurisdizioni nazionali, come nei Paesi Bassi, che solo quest’anno hanno confermato la responsabilità dello Stato olandese per le vittime del genocidio di Srebrenica e casi di giurisdizione universale, come quelli effettuati in Germania . È questa rete complessa che determinerà, alla fine, se la giustizia è solo per i vinti. Resta da vincere, beninteso, la battaglia della effettiva pacificazione, evitando che criminali di guerra vengano trattati con tutti gli onori, da vivi o da morti, dalle comunità da cui provengono. Il fenomeno purtroppo, come Mieli ben sa, non è limitato alla sola ex Jugoslavia ed ha attraversato tutto il Novecento. Ma alla fine in tanti paesi ne siamo usciti. L’idea di giustizia penale internazionale, specie di questi tempi in cui larealpolitik sembra prendere sempre più il sopravvento sull’assunto che tutti, nel mondo, dovrebbero godere dei diritti umani fondamentali e poter vivere in uno stato di diritto che li protegga da guerre e altre atrocità, e’ un concetto preso di mira perché apparentemente poco efficace o, appunto, magari di parte. Ma stiamo attenti a non delegittimarlo, perché resta un formidabile deterrente per i tanti dittatori che, ovunque nel mondo, prendono in ostaggio sovente i loro stessi popoli, contando nell’assoluta impunità delle proprie azioni. Ho speso tante energie, con il partito radicale, con «Non c’è Pace Senza Giustizia», per contribuire all’istituzione prima del tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia, poi della Corte Penale Internazionale. Continuo a credere di aver fatto la cosa giusta.